Sono circa le 11.00 di una domenica mattina di fine febbraio, quando le giornate iniziano ad allungarsi e la luce splende di più rispetto a gennaio.
Suoni il campanello, immediatamente si apre la porta, il suono dell’apertura si ripete però almeno dieci volte: è chiaro che la proprietaria di casa sta continuando ad aprirla, colta da un poco celabile entusiasmo per la tua visita.
Sei andato a trovare l’amica di famiglia, che vive poco distante da te. Entri, sali le scale e la signora ti spetta lì, sorridente, accogliente.
Ti invita a seguirla in cucina. Per raggiungerla devi attraversare la sala da pranzo, dove ci sono due finestre semi aperte, dalle quali entra una luce nitida che rende più chiari e luminosi i mobili di arte moderna e rischiara i tappetti più o meno persiani. Dalle finestre entra una leggera brezza, sufficiente a far svolazzare con leggerezza le tende lunghe, che arrivano quasi a terra, ma solo quasi, si fermano un po’ prima del pavimento lasciando il termosifone scoperto per almeno venti centimetri.
Mentre attraversi questa stanza fresca, luminosa, scorgi un tavolo, sopra al quale intravedi dei lembi immobili che scendono ai lati. Sono di un tessuto ancora poco comprensibile. Più procedi più ti appare una specie di scultura, non ti è chiara l’immagine ma noti le quattro gambe del tavolo marroni e sopra un oggetto, attaccato, che ricopre e incornicia il piano del tavolo.
Ti avvicini sempre di più, l’aria che entra dalle finestre ti spettina un po’ i capelli, muove le tende, ma non quell’oggetto. La specie di scultura inizia a prendere una forma più esplicita, la luce vi si posa delicatamente sopra, osservi meglio, un chiarore e una scia luminosa ti stanno decisamente portando lì. Procedi, curioso, quasi rapito da una sensazione mista tra il sospetto e la curiosità.
Sei arrivato, eccola. È la tovaglia cerata con i fiori opachi.
La guardi, poi guardi la proprietaria della tovaglia, poi riguardi la tovaglia; lei ti invita ad accomodarti, tu ti siedi, e nel frattempo guardi ancora la tovaglia cerata. Poi rivolgi di nuovo lo sguardo alla proprietaria, e infine sposti la sedia tenendo gli occhi fissi sul piano del tavolo.
Prendi finalmente posto, i lembi della tovaglia non si muovono, la sfiori con un dito per vedere se è vera, si è vera, ed è li davanti a te, immobile, fissa su quel tavolo: la tovaglia cerata con i fiori opachi.
Un’atmosfera poetica e disarmante ti rapisce, comprendi che quella non è una semplice tovaglia cerata, ma che è la versione 2.0 della tovaglia cerata con i fiori opachi.
L’immagine arcaica che ti viene in mente è quella di un uomo seduto al tavolo con la tovaglia cerata, in canottiera, con i jeans, la barba lunga di due giorni, con una macchiolina appena accennata di sugo sulla canottiera a coste. L’uomo nella versione originale ha un bicchiere di lambrusco davanti e il telecomando sul tavolo a destra. C’è anche la moglie, con piccoli riccioli corti da bigodino sulla testa, la calza velata color carne, la gonna stretta fino al ginocchio e un piccolo spacco dietro, non per renderla sexy, ma per renderle più comoda la camminata. Entrambi sono rigorosamente in ciabatte e c’è un ventilatore d’acciaio alle spalle dell’uomo.
Intuisci che ciò che sta avvenendo sotto ai tuoi occhi è molto di più di questa immagine ormai vecchi di almeno vent’anni, sì, è molto molto di più. Sei di fronte alla versione 2.0 della tovaglia cerata con i fiori opachi. La proprietaria indossa un paio di jeans stretti, molto stretti, con la vita bassa, che farebbe uscire un po’ di pelle sul punto vita anche a una top model lanciata da Gianni Versace. Ha una maglietta a righe che arriva appena so- pra la cerniera dei jeans, indossa ciabatte blu a doppia fascia decorate con brillantini, la suola di circa tre centimetri è di sughero originale. Nei capelli lunghi fino alle spalle e un po’ ricci c’è un mollettone verde, che non serve a tenerle i capelli ai lati, è lì solo a scopo decorativo.
Tutto ciò a cui stai assistendo è un esempio di evoluzione della specie, te ne rendi conto, ed emozionato cogli l’importanza di questo momento.
La proprietaria, con una gentilezza inquietante, ti offre un bicchiere di acqua. A piccoli passi veloci si posiziona davanti al bancone della cucina, dove riempie il bicchiere di acqua fino al bordo. Facendo leva sull’addomi- nale e con uno sforzo di memoria sui principi del pilates, che fa il mercoledì sera nella palestra messa a disposizione dal comune, che in realtà è la sala civica, ti porta il bicchiere mantenendo un perfetto equilibrio.
Posa il bicchiere sul tavolo, ricoperto h 24 dalla tovaglia cerata con i fiori opachi, e con aria di sfida, ma anche di orgoglio, osserva se riesci a prendere il bicchiere senza far cadere nemmeno una goccia di acqua.
Tu alzi il bicchiere, la tua mano trema, interrompi quello che le stavi raccontando, inspiri lentamente e poi espiri, sempre lentamente, il bicchiere è quasi alle labbra… ma no… l’acqua trabocca e cadono come a rallentatore alcune gocce sulla tovaglia.
Tu e la proprietaria rimanete in silenzio, vi fissate. Le tue guance si arrossano, sotto al tavolo muovi compulsivamente la gamba sinistra, stai per chiederle scusa ma riesci solo a emettere un leggero suono con le labbra; lei, con un balzo veloce, prende l’asciughino da sotto il lavello e con un altro balzo torna indietro. Passa lo straccio sul tavolo e l’acqua non c’è più. Con sguardo tronfio, tira leggermente in su gli angoli della bocca e non capisci più se sei davanti a Joker o alla stessa persona, che per troppo entusiasmo ha schiacciato almeno dieci volte il tasto sul citofono per aprirti la porta.
Ritrovi serenità appena lei ti dice di non preoccuparti per aver rovesciato l’acqua. Ti racconta che lei, quella tovaglia, l’ha comprata un lunedì mat- tina al mercato, che l’ha trovata al banco di «quelli che hanno solo cose buone per la casa». Specifica che l’acquisto è avvenuto circa cinque anni fa, che per andare al mercato si era comprata apposite ciabatte con zeppa di sughero alta almeno sette centimetri e con le fascette davanti in finto cavallino nero.
Ti racconta che appena l’ha portata a casa ha subito chiamato felice le sue amiche a bere il caffè. E tu te le vedi lì, adrenaliniche, come le fan dei Duran Duran, e ti vedi la proprietaria che, come John Taylor, versa apposta l’acqua sulla tovaglia per dimostrare che basta passare lo straccio per asciugarla. Subito dopo averla asciugata, questa volta come Simon Le Bon, e da vera front woman, intona insieme alle amiche Wild Boys e tutte insieme ridono e cantano tra schizzi di acqua che si depositeranno per breve tempo sulla tovaglia.
Davanti a tutto ciò, tu che sei amico dell’architetto che conosce Palladio, vorresti provare una certa repulsione, vorresti sentire almeno un leggero fastidio. Ma ogni volta che guardi la tovaglia cerata con i fiori opachi, con il fondo verde e i fiori che a tratti sono bianchi e altri color senape, qualcuno vira al rosso e altri al giallo, ecco, quando seduto lì davanti a questa tovaglia ormai appiccicata al tavolo che nessun flessibile riuscirà mai a togliere, non riesci a provarle queste sensazioni.
Al contrario, si fa sempre più evocativa la bontà del profumo della torta di mele nel forno che pervade tutta la casa, l’immagine di persone intorno al tavolo che si divertono e ridono, e fa niente se in coro e con un eccesso di carisma intonano tutte insieme Wild Boys, perché quella tovaglia, che vorresti tanto odiare, fa casa, e non lo ammetterai mai, ma a te questa sensazione piace. E dopo averlo ammesso, tranquillo, questa storia si autodistruggerà nel giro di dieci, nove, otto… secondi.
Tratto da “Fatti di Umani” di Elisa Rovesta
NFC Edizioni