Lei mi guarda, è davanti a me, in piedi in una stanza piccola e tutta bianca destinata alle attività ricreative. È la mia educatrice, la persona preposta a salvarmi da questo male che ho dentro e che lei non conosce per niente. Seria, con la voce impostata, senza cambiare mai tono, né per le affermazioni né per le domande, proprio sempre uguale. Mi fissa mentre le sono seduta davanti, sì, per essere salvata, o almeno è ciò che crede.
Sono un po’ pallida, un po’ ricurva su me stessa, senza un elettrolito, con i buchi delle flebo di sodio sulle braccia, ma nonostante tutto resisto e penso: “Tu, educatrice, non mi abbatterai con le tue supposizioni e pillole di saggezza comuni, già, troppo comuni. Non mi butterai ancora più giù, non tu, non adesso e non qui. Mi manca un coltello tra i denti per essere John Rambo, e combatterò, sì, combatterò fino allo stremo delle mie forze, ma non mi avrai mai, non cadrò nella tua trappola”.
L’educatrice porta una mano sulla guancia, vicino alla bocca, socchiude gli occhi, si riscalda la gola e mi dice: «Perché fai così? Perché non mangi? Lo sai, l’esteriorità non è tutto, la bellezza interiore invece è importante».
“Grazie al c…” penso io.
Vorrei risponderle che non sta parlando a un ergastolano, a un pluriomicida privo di valori, e che dentro di me la bellezza interiore non è in discussione (sono giovane ma sono sveglia). Ciò che metto in discussione è l’immagine che vedo riflessa nello specchio o la sensazione che provo se sono seduta intorno a un tavolo con altre persone, ad esempio a una cena con gli amici.
Sono educata con la gente, la rispetto, non mi mancano questi valori. Quello che mi manca è la capacità di sentirmi all’altezza, di sentirmi bella anch’io, e più che altro di essere vista anch’io come io vedo loro.
Quindi grazie, ma il punto non riguarda la mia insicurezza rispetto alla mia bellezza interiore, riguarda i miei fianchi, riguarda il mio “fuori”, riguarda tutto il fuori e tutto quello che c’è là fuori. Riguarda la mia voglia di piacermi.
Penso tutto questo, ma guardo il pavimento e le rispondo, debolmente, che ha ragione.
Lei non si scompone. Senza notare che quello che penso è completamente l’opposto di quello che dico, mi ripete ancora che la bellezza interiore è importante. Sì, di nuovo…
Mi spiega anche che la tristezza è un’emozione, anzi, un’emozione primaria, e che forse un giorno diventerà nostalgia.
Ecco, ora sì che sto meglio! A parte che io non lo so cosa siano le emozioni primarie, figuriamoci se capisco il nesso con la nostalgia… ma lo prendo per vero, e rido dentro di me pensando: “Sono certa che questa botta di entusiasmo mi riporterà nella giusta direzione valoriale!”
A questo punto immagino ancora John Rambo e mi ripeto: “Sono una fottuta macchina da guerra, dirigerò io questa conversazione (sono giovane ma sono sveglia)”. Ma, sempre pallida, vestita di nero, con lo smalto rosso, i capelli arruffati, legati in una coda che, sì ok, poteva venirmi meglio, e sottovoce le rispondo: «Capisco».
L’educatrice ribatte ripetendo che la bellezza svanisce…
“Di nuovo? E grazie al c…”
Nel mio cervello risuona: “Certo che lo so, ma per me è già svanita, anzi,
nemmeno c’è mai stata”.
Penso di aver tentato di essere apprezzata per la mia intelligenza. Ci ho provato a piacere per ciò che ho letto, studiato, per aver aiutato tanti amici, per amare gli animali, per aver compreso cose più grandi di me, cose da adulti, diventando adulta anche io per l’occasione. Ma ero una bambina e ora una ragazzina, era l’interlocutore adulto che si dimenticava della mia età.
Ho cercato davvero di essere matura, ma cosa posso farci se certe cose non so capirle? L’ho consolata mia madre quando i miei genitori si sono separati, e anche la mia amica, che è come me, ci ha provato a consolare suo padre quando aveva perso il lavoro. Ma non è bastato per essere viste.
Lo giuro, ci ho provato a non parlare dei mei problemi per non disturbare nessuno, e sono stata tutto ciò che dovevo per essere vista.
Ma le rispondo timidamente: «Certo».
L’educatrice insiste e mi consiglia di lasciarle andare via queste emozioni. Prima di risponderle penso che ho preso tutte le emozioni delle persone
intorno a me, le ho elaborate e affrontate per loro. Ho voluto migliorarle e renderle per loro più belle. A ogni richiesta ho detto sì, sono stata a ballare i balli latino-americani in mezzo ai cinquantenni perché mia mamma voleva fare delle cose insieme a me, e sì, magari a me non piaceva molto, avrei preferito andare insieme a giocare a tennis, ma volevo essere brava e farla felice. Ho studiato tanto matematica, ma proprio tanto. E lo ammetto, mi fa schifo, ma nella mia famiglia tutti hanno una laurea in economia, non potevo farli sfigurare e studiare canto, come mi sarebbe tanto piaciuto fare.
Così le emozioni delle persone a cui voglio bene sono diventate le mie, e le mie sono rimaste solo mie. Ho lasciato che svanissero. Quindi io le mie emozioni le ho già lasciate andare via, se è questo che intendi, eppure non è servito a niente. Non mi vedevano.
Lei non si accorge che non le dirò nulla di tutto ciò che ho pensato, faccio solo un sospiro e accenno un «ci proverò».
A “dire la mia” questa volta ci ho messo un po’, allora si scalda di nuovo la gola e mi dice: «Vabbè dai, passerà, capirai un giorno che la bellezza non è tutto».
Sì, invece, che è tutto, o almeno io vorrei che fosse in tutto. La bellezza dei gesti che facciamo, la bellezza delle parole che usiamo, la bellezza dei sentimenti che proviamo, certo che è tutto. E dentro sono piena di bellezza, talmente piena che non me ne è più rimasta fuori. Ho cercato di darne così tanta di bellezza interiore da dimenticarmi quale sia la mia. E quindi voglio un involucro in cui contenere chi sono io, e voglio che sia bello, che male c’è? Ma adesso non lo vedo questo involucro che si chiama corpo, non lo vedo in quello specchio. Perché purtroppo lo specchio non riflette se sono buona, generosa, non lo riflette lui e non l’ha riflesso nemmeno la gente. Quindi, ok che sono Rambo, ma voglio vedermi e voglio esprimere con la mia immagine le mie emozioni… che, chissà, forse sono rimaste ancora in quella sala da ballo di latino-americano, o forse in classe, o forse in montagna, o forse in ogni cosa che ho fatto per essere vista. Ancora aspetto che qualcuno chieda a me cosa voglio fare e che per stare insieme a me mi accompagni a farla. Soprattutto ancora aspetto che qualcuno mi dica che sono stata brava, o perché no, che sono bella.
Questa volta le rispondo però, in fondo sono Rambo, e con voce bassa ma decisa le dico: «Grazie al c…»
Tratto da “Fatti di Umani” di Elisa Rovesta
NFC Edizioni